giovedì 3 marzo 2011

Io, pentito dimenticato adottato dai Borsellino

http://archiviostorico.corriere.it/1992/maggio/07/dalle_trame_Agca_delitti_eccellenti_co_0_9205076988.shtml


DA "ARCHIVIO LA REPUBBLICA DAL 1984"


L' uomo senza nome, una vita fa, si chiamava Vincenzo Calcara e faceva il killer. Cosa nostra gli commissionò l' omicidio di un magistrato, che si chiamava Paolo Borsellino. Lui accettò. Poi si pentì, si presentò in Procura. E chiese di parlare con la sua vittima. Quel giorno di dicembre del 1991 perse il nome e trovò un amico. Da allora è un fantasma, dimenticato da chi gli promise una nuova esistenza, braccato da chi gli giurò vendetta. E sostenuto dagli eredi di chi capì il suo gesto: gli eredi di Borsellino. Sono storie legate da un doppio filo, quella del giudice e del killer. Le figlie del killer si chiamano Agnese, Lucia e Fiammetta come la moglie e le figlie del giudice. La primogenita, Agnese, è stata battezzata da un familiare del giudice che la mafia gli aveva ordinato di ammazzare. Lo stesso giudice dal quale il killer si presentò il 3 dicembre 1991, giorno del suo trentacinquesimo compleanno. Disarmato: «Sono stato incaricato di ucciderla con un fucile di precisione o con un' autobomba», disse Calcara guardando Borsellino fisso negli occhi. «Lei è ormai condannato a morte. Io la odiavo perché lei era ed è un nemico di Cosa nostra. E io ero ben felice di essere stato scelto per premere il grilletto contro di lei. Per me ucciderla sarebbe stato un onore, ero orgoglioso perché dentro Cosa nostra avrei fatto strada, come tanti altri sicari diventati boss. Ma adesso non è più così, quell' uomo non esiste più e, se mi permette, voglio abbracciarla». Borsellino lo abbracciò. Da quel momento si videro spesso. Molto spesso. Giorni e giorni di confessioni, che provocarono centinaia di arresti di mafiosi e colletti bianchi. Qualcosa era scattato, qualcosa aveva unito per sempre il giudice e il killer. Fu Calcara ad avvertire Borsellino, all' epoca Procuratore della Repubblica di Marsala, che era arrivato un «carico» per lui, che Cosa nostra aveva procurato l' esplosivo poi utilizzato nell' attentato di via D' Amelio, il 19 luglio del 1992. Ma negli ultimi mesi di vita il magistrato ebbe il tempo di raccontare ai familiari la sua storia con il killer. Una storia che è tornata a vivere nella fiction del regista Gianluca Tavarelli, la cui prima puntata è andata in onda proprio ieri sera. Gli anni ora sono passati. Paolo Borsellino non c' è più. E Vincenzo Calcara è diventato l' uomo senza nome. Adesso è un «fantasma» non esiste più per nessuno. Non è registrato all' anagrafe di nessun comune italiano. Il suo vecchio nome lo si può leggere solo nei documenti scaduti che si porta appresso, costretto com' è a fuggire con la moglie e i quattro figli da un angolo all' altro della Penisola per evitare la vendetta di Cosa nostra. Nel '98 Calcara rinunciò volontariamente al programma di protezione: «Perché - spiegò - nessuno possa mai dire che ho deciso di collaborare con la giustizia per soldi o per altri interessi». Allo Stato aveva chiesto solo una cosa: una nuova identità per ricominciare una nuova vita, lui e i suoi familiari. Ma nessuna risposta è mai arrivata dalla speciale Commissione del Servizio Centrale di Protezione dei pentiti che dovrebbe decidere sul suo caso. Tutti si sono dimenticati di lui, anche la burocrazia: non può rinnovare i vecchi documenti perché non risiede da nessuna parte, non può chiederne di nuovi perché a un fantasma non si rilascia la carta d' identità. Lavora in nero, il fantasma. Fa debiti, manda i figli nelle scuole private perché anche loro non hanno un nome, li fa vivere lontano dalla città in cui abita per evitare di essere localizzato dalla mafia. Sopravvive con uno stipendio di poco meno di mille euro al mese. Senza contributi o assegni familiari. Gli unici che non si sono mai dimenticati di Vincenzo Calcara sono i familiari di Paolo Borsellino, che provvedono a ogni necessità del pentito contribuendo con somme di denaro al sostentamento della sua famiglia e che provvedono anche alla sua assistenza legale. «E' davvero sconcertante - dice un magistrato della Procura di Palermo - che ad aiutare Calcara sia la famiglia Borsellino, segnata da una drammatica vicenda, e non lo Stato a cui il pentito ha dato un grosso contributo». L' ultima volta (ma è già dal 1998 che lo fa) che Calcara ha chiesto allo Stato di dargli una nuova identità è stato nel marzo scorso. Il suo legale, l' avvocato Monica Genovese, ha sottolineato che «l' unica possibilità che avrebbe Calcara di guadagnarsi onestamente da vivere gli è resa impossibile per il fatto di non avere una residenza. Di conseguenza non è in grado di svolgere regolare attività lavorativa con le garanzie ed i diritti-doveri incombenti su tutti i lavoratori regolari. La situazione è aggravata dal fatto che una figlia di Calcara, Fiammetta, a causa di un incidente è cieca a un occhio e necessita di assistenza specialistica». Eppure quell' uomo è stato un teste d' accusa fondamentale nei più importanti processi di mafia degli ultimi dieci anni. Le sue parole hanno inchiodato boss, assassini e fiancheggiatori di Cosa nostra. Adesso però è rimasto solo. E nella stessa situazione si trova la sua famiglia: «Dopo il recesso dal programma di protezione - spiega ancora l' avvocato Genovese - si trovano tutti senza documenti di identità, sono privi di residenza anagrafica e non possono godere dei diritti che la legge riconosce ai normali cittadini». Fantasmi anche loro, orfani anche loro del nemico che in un giorno d' inverno diventò il più fidato degli amici. - 

FRANCESCO VIVIANO PALERMO



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